Cos’ha insegnato la morte di Vincenzo Paparelli

Ultimo aggiornamento: 20.04.24

 

A prescindere dallo sport preferito o dalla squadra tifata, ci sono avvenimenti che segnano in modo indelebile la storia e tra questi c’è la morte di Vincenzo Paparelli.

 

Lo sport è una di quelle discipline che chiama a raccolta milioni di persone ogni anno: dalla pallavolo al basket, dall’hockey su ghiaccio a quello a rotelle, passando per il calcio. Lo scopo principale è la promozione del benessere psicofisico, del senso di appartenenza, nonché della professionalità. Ma, come in tutti gli ambiti, anche in quello sportivo non è sempre tutto rose e fiori, anzi lo spirito competitivo di molti appassionati può trasformarsi in un vero e proprio incubo.

Le motivazioni possono essere diverse, talvolta persino difficili da comprendere e altrettanto da condividere. Eppure, è un dato di fatto che molti avvenimenti, tristemente noti, hanno più che confermato. Proprio perché esiste una memoria storica, allora si deve prestare maggiore attenzione, cercando di essere migliori di ieri, per amore sincero nei confronti dello sport.

Tra gli accadimenti che hanno sicuramente segnato la memoria collettiva, non possiamo non citare il caso Paparelli, tifoso morto più di 40 anni fa: una dipartita emblematica che merita ancora oggi di essere ricordata. La sua triste vicenda ci ha insegnato il valore della vera passione per lo sport e ha sottolineato quel senso di appartenenza che trascende ogni tipo di preferenza sul campo da gioco.

 

Diamo un contesto

Partita Roma-Lazio, 28 ottobre 1979. Lo Stadio Olimpico era gremito di ultras, ma anche di semplici tifosi di una o dell’altra squadra. Si trattava senz’altro di un’altra Italia e di un altro calcio rispetto a quelli a cui siamo abituati oggi: i cosiddetti “Anni di piombo” erano in pieno fermento. Il calendario della Serie A era ormai agli sgoccioli, e quel giorno la sfida di cartello era indubbiamente il derby della Capitale anche se le due formazioni erano decisamente indietro in classifica. Ma l’atmosfera era comunque elettrica e pulsante come in ogni stracittadina che si rispetti.

Prima di proseguire nel racconto bisogna fare un inciso e ricordare che, purtroppo, la morte all’interno di uno stadio di calcio non era un evento inedito.  Già nel 1963 si era verificato un omicidio, il primo nella storia calcistica italiana: quello di Giuseppe Plaitano, ucciso a causa di un proiettile vagante sparato da un carabiniere intento a disperdere la folla.

Chi era Vincenzo Paparelli?

Una persona comune, amante sfegatato della Lazio; meccanico di 33 anni sposato da diverso tempo con sua moglie, Wanda. Quel giorno non doveva nemmeno essere lì, su quegli spalti nella Curva Nord dell’Olimpico: si trovava perché il fratello, impossibilitato ad andare allo stadio, gli aveva prestato la tessera. Ma chi poteva immaginare quanto sarebbe accaduto? Nessuno aveva la sfera di cristallo per sapere in anticipo a cosa poteva portare la sua fede calcistica.

 

Un triste avvenimento improvviso

Quando capitano situazioni del genere si rimane sempre un po’ spiazzati, oggi come un tempo. Ma com’è avvenuto l’omicidio di Vincenzo durante la partita Lazio-Roma allo Stadio Olimpico? Sicuramente all’improvviso visto che, poco prima dell’inizio della partita, un razzo di tipo nautico, sparato dalla curva opposta a quella dove si trovata Paparelli, ha attraversato il cielo e l’ha colpito in pieno volto, mentre stava mangiando un panino con la frittata preparato dalla moglie. Furono inutili i tentativo di soccorso, tanto che il primo medico che accorse dichiarò successivamente di non aver visto una lesione così grave nemmeno durante il periodo di guerra.

Cosa ne sappiamo oggi

Dopo l’accaduto le indagini furono approfondite, perché l’intera vicende assunse un peso mediatico non indifferente, in particolare per cercare di dare un nome e un volto a chi aveva scagliato quel razzo. Oggi sappiamo che a sparare il razzo è stato l’allora diciottenne Giovanni Fiorillo, un pittore edile disoccupato conosciuto in tutta la Curva Nord della Roma, in compagnia di due amici, Marco Angelini ed Enrico Marcioni (all’epoca minorenne). I tre sono stati condannati rispettivamente a sei anni e dieci mesi di detenzione (Fiorillo e Angelini) e quattro anni e dieci mesi (Marcioni)

Nonostante la notizia della morte di Paparelli si diffuse velocemente, l’arbitro dell’incontro – dopo essersi consultato con il questore e il capo della polizia – decise che l’incontro si doveva giocare. Così le due formazioni si avviano al centro del campo in un silenzio surreale e carico di tristezza prima che la parte dello stadio della Lazio venga scossa come da un tremito e i tifosi comincino a cercare di riversarsi nella curva romanista, infrangendo le barriere e mettendo sotto pressione le forze dell’Ordine che, per fortuna, riescono a bloccarli, anche grazie all’intervento del capitano dei biancocelesti, Pino Wilson, che si prodiga per riportare la calma sugli spalti. Per la cronaca la partita finirà in pareggio. 

 

Evoluzioni della vicenda

Oggigiorno la vicenda dell’ultras della Lazio ucciso è entrata nell’immaginario collettivo di tifosi e non, proprio per la crudeltà di quel triste avvenimento. Speranze, desideri, opportunità, famiglie distrutte a causa di qualcosa che doveva invece unire: la passione per lo sport. Ma non è considerabile amore per il calcio quello che invece porta a ferire gli altri, a creare disordine. Questo è stato compreso con il tempo, anche se tutt’ora c’è ancora molto su cui lavorare, ma in giro per Roma non è difficile incontrare scritte sui muri che recitano frasi come: “Paparelli non ti dimenticheremo”.

Ricordare il ragazzo a cui hanno sparato a Roma sul finire degli anni ‘70 non vuole essere un esercizio nostalgico o retorico, quanto più un motivo per sottolineare l’importanza di quello che dovrebbe essere un insegnamento. Stiamo parlando di un approccio al pallone da calcio quanto più pulito e onesto possibile, affinché ogni partita si trasformi in un evento divertente e di condivisione, di competizione e di senso di appartenenza.

 

 

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